La saga di Gian Castagnero
Di lui si raccontano curiose leggende, che lo vogliono di statura gigantesca e di astuzia straordinaria. Ancora si mostrano i sotterranei dove si dice che coniasse monete con l’oro scavato in una miniera di cui egli solo conosceva il segreto.
Tutti i Balmesi sono in qualche modo discendenti di Gian Castagnero (1550-1643), detto Gian dìi Lentch, che fondò il comune e la parrocchia di Balme. La maggioranza d egli abitanti porta ancora oggi il suo nome.
Ma Gian è ricordato soprattutto come costruttore del Routchàss, la grande casa fortificata, che sorge sulla rupe a picco sulla gola della cascata, ricca di affreschi e di iscrizioni, ma anche di passaggi sotterranei, di anfratti e di misteri, di cui si raccontano storie strane e dove pochi osano entrare dopo il calar della notte, soprattutto nel portico dove è dipinta la cena del Re Erode.

La marcia dei contrabbandieri

A Balme anche le donne facevano la spola tra la Savoia e il Piemonte cariche di merce di contrabbando. La leggendaria Gina dìi Toùni, sorella della celebre guida Antonio Castagneri, portava sulle spalle i suoi trenta chili di sale da Avérole al Pian della Mussa, inerpicandosi tra le rocce per otto ore senza mai fermarsi e senza togliersi la pipa di bocca.
Il villaggio di Balme sul versante Piemontese e quello di Bessans su quello savoiardo distano pochi chilometri in linea d’aria, ma sono separati da una barriera di rocce e di ghiacci che non scende mai sotto i tremila metri di quota. Eppure per secoli le due comunità hanno mantenuto comunicazioni strettissime, al punto che il patois di Bessans è più simile a quello di Balme che non a quello dei vicini villaggi della Haute Maurienne.
Il passaggio, malgrado i pericoli, avveniva spesso di notte, per eludere la sorveglianza dei gendarmi e a Balme ancora si raccontano tristi storie di disgrazie, come quella di Angelo Castagneri Barbisìn, che nel novembre 1864, all’età di vent’anni, cadde in un crepaccio del ghiacciaio d’Arnàss, e ne fu estratto congelato ma ancora vivo dopo otto giorni. Soltanto per morire un anno dopo, divorato dalla cancrena.

Quando non esisteva la ruota
Prima del 1887, quando fu costruita la strada carrozzabile, non esisteva in tutto il territorio del comune di Balme alcun percorso dove potesse essere utilizzato un veicolo a ruote.
Da tempo immemorabile era stata messa a punto una tecnologia adatta alla necessità di movimentare i diversi materiali di cui necessitava l’economia locale, legata alla pastorizia e ad una agricoltura di sussistenza.
Il garbìn, cesto cubico con una cavità per ospitare la testa, era usato per portare materiale molto pesante. Rispetto alla gerla, usata invece per le cose più leggere, ha il vantaggio di non costringere a procedere curvi in avanti e di non soffocare la respirazione. Si usava anche per trasportare il letame e per rimontare la terra ad ogni primavera nei campi fortemente inclinati.
La slitta serviva per il trasporto non soltanto di concime, fieno e legna, ma anche di pietre, sabbia ed altro materiale da costruzione. Il modello in uso a Balme, apparentemente semplice, contiene invece soluzioni tecnologiche sofisticate che permettono di ridurre il peso dell’attrezzo senza pregiudicarne la robustezza e la flessibilità, evitando ogni tipo di chiodatura e con l’utilizzo di quattro diversi tipi di legno (acero o salice per i pattini, frassino per i montanti, larice per il telaio, maggiociondolo o nocciolo per i manici)..
Per legare i carichi, non si facevano nodi, che sarebbe stato impossibile sciogliere specialmente quando bagnati o gelati, ma si usava un particolare attrezzo auto-bloccante, la tròi, sul quale la corda resta serrata dalla stessa trazione ma può essere facilmente sciolta tirandone il capo libero.

Il mestiere di guida alpina
La tragedia del Monte Bianco
Nell’estate del 1890 il giovane conte Umberto Scarampi di Villanova, prima di abbandonare l’alpinismo attivo per sposarsi, vuole salire il Monte Bianco per una via nuova. La madre, marchesa Valperga di Masino, lo persuade a ingaggiare le due migliori guide alpine d’Italia, Antonio Castagneri di Balme e Jean Joseph Maquignaz di Valtournanche. Nella notte del 18 agosto i tre alpinisti partono per la cresta di Bionassay. Si scatena poco dopo un terribile uragano, nel quale la cordata scompare per sempre. Malgrado le disperate ricerche fatte fare dalla madre del conte, i loro corpi non saranno mai più ritrovati.
Finiva così, tra la storia e la leggenda, la carriera alpinistica di Antonio Castagneri (1845-1890) detto Tòni dìi Toùni, una delle più grandi guide alpine di ogni tempo, che collezionò ben 43 prime ascensioni, ponendosi di gran lunga al primo posto tra le guide italiane e francesi.
Appartenente al clan dei Castagneri Touni, proprietari da tempo immemorabile degli alpeggi del Pian della Mussa e quindi naturalmente investiti del ruolo di guardiani dei valichi, Toni esordisce nel 1867 accompagnando alla Ciamarella il Conte Paolo di St Robert, uno dei fondatori del Club Alpino Italiano.
Nel 1874, in compagnia di Alessandro Martelli e Luigi Vaccarone, egli inaugura la stagione dell’alpinismo invernale italiano, con l’ascensione dell’Uja di Mondrone compiuta la vigilia di Natale. Due anni dopo lo stesso Quintino Sella, Presidente del Club Alpino Italiano, lo vuole con sé nella salita del Cervino, affidandogli in modo particolare uno dei suoi figli.
Ma è l’incontro con Guido Rey a dare ad Antonio Castagneri una fama destinata a durare nel tempo. Per il grande alpinista e scrittore di montagna, Tòni è la guida per antonomasia, il maestro d’alpinismo.

Guide alpine e belle époque

Le guide andavano con il cappello in mano ad aspettare gli alpinisti all’arrivo della corriera, ma poi, in montagna, si trovavano ben presto ad operare su un terreno dove erano loro i più forti, dove condividevano con i loro clienti il giaciglio, il cibo e i disagi e dove competeva loro la conduzione della cordata.

Molti alpinisti rimasero profondamente colpiti dalla disinvoltura con cui i montanari si muovevano in un ambiente per loro ostile, dalla sicurezza con cui affrontavano difficoltà per loro insormontabili, fino a identificare nelle guide la personificazione delle virtù montanare vagheggiate dalla cultura romantica..

D’altro canto, la frequentazione dei villeggianti dava alle guide e agli abitanti delle alte valli un certo livello di educazione e di cultura, di cui talvolta i loro stessi clienti restavano stupiti, come anche delle attenzioni di cui erano oggetto.

Ancora oggi si mostra a Balme la conchiglia di mare con cui Gep dìi Touni porgeva da bere alle signore che accompagnava in montagna e si ricorda come venisse criticato il comportamento di guide della generazione precedente, più rozze, come Tìta Bric, che riempiva senz’altro alla fonte il suo cappellaccio bisunto.

Senza scarponi e senza occhiali da neve
Tra le guide di Balme le scarpe erano un lusso, come anche gli scarponi con i chiodi. Di solito calzavano zoccoli di legno (anch’essi chiodati), mentre d’estate era abitudine comune andare scalzi anche in alta montagna (e persino sulla neve!). Prima di affrontare passi delicati su rocce ripide e lisce, si ricorreva talvolta al sistema di orinare sui propri piedi nudi, in modo che l’epidermide umida avesse maggiore aderenza sulle pietra asciutta.
I chiodi utilizzati (di solito fabbricati in bassa valle) erano di diverso tipo (bullette, brocchette, tricoùni…) e la foggia di chiodatura classica fu poi ripresa dalle prime suole in gomma Vibram, diffuse soltanto a partire dal secondo dopoguerra.
Il riverbero del sole sulla neve era spesso origine di gravi oftalmie, che non di rado portavano i vecchi montanari alla quasi cecità. Prima dell’introduzione degli occhiali da ghiacciaio, l’unica precauzione utilizzata era quella di annerire il volto attorno agli occhi con un turacciolo di sughero bruciacchiato.

Gli attrezzi del mestiere
I montanari percorrevano i ghiacciai utilizzando non già la piccozza, bensì l’èrpic o cravìna, un bastone ferrato con puntale a tre punte, di cui una diritta e due ripiegate ad uncino. Un attrezzo da cacciatore, adatto ad estrarre dalle tane volpi e faine, ma soprattutto le marmotte, le cui tane venivano scavate durante il letargo invernale. La cravìna era utilizzata anche da coloro che esercitavano il commercio con la Savoia per rallentare la discesa a ràspa lungo i ripidi pendii di neve dura.

Per salire c’erano invece i sèrquiou, un tipo particolare di racchetta da neve, assai diffuso in passato nell’alta valle, che rappresenta un adattamento del modello tradizionale (fatto di un telaio in legno e di corde intrecciate – quelle che nel Trentino chiamano ciàspole -) alla necessità di muoversi su di un terreno particolarmente ripido. I sérquiou sono fatti interamente con assicelle di legno, che sostituiscono le corde, mentre il telaio non è rotondo (malgrado il nome) ma è ricavato da una lista di frassino incurvata a ferro di cavallo. In questo modo i sérquiou sono molto più robusti delle racchette normali e possono essere calzati in modo che la punta della scarpa arrivi fino al bordo anteriore della racchetta, permettendo di incidere gli scalini in un ripido pendio di neve indurita. Quando la neve era molto dura oppure emergeva il terribile ghiaccio nero, vitreo e duro, venivano calzate le gràppess (o grepìn), rudimentali ramponi a quattro o sei punte usati anche su ripidissimi pendii erbosi.

L’Antico Albergo Camussòt
L’Hotel Camussòt, uno dei luoghi simbolo dell’alpinismo torinese, entrò nella storia nel dicembre 1874, quando Alessandro Martelli e Luigi Vaccarone vi pernottarono prima di compiere l’ascensione all’Uja di Mondrone, salita memorabile che segnò l’inizio dell’alpinismo invernale italiano. A quell’epoca l’albergo era ancora una modesta locanda, con un unico ambiente al pian terreno, che fungeva da cucina e sala da pranzo, e alcune gelide stanze al piano superiore.
Ancor oggi si può vedere l’antica insegna, che reca la data 1817, e lo stemma dei proprietari, la famiglia Drovetto, nel quale campeggiano tre ruote d’arcolaio (dalla versione francese del cognome Du Rouet).
Le fortune dell’albergo iniziarono con quelle di Giacomo Bricco detto Camussòt, guida alpina che si fece albergatore avendo sposato la figlia dell’ultimo gestore della locanda e soprattutto con il figlio di questi, Stefano Bricco, che creò, nei primi anni del ‘900, un vero e proprio impero alberghiero, ospitando la migliore società torinese del tempo. Gli anni tra il 1920 e il 1930 segnarono l’apogeo delle fortune del Camussòt, che divenne punto di riferimento di importanti manifestazioni sportive e culturali.
Il registro dell’albergo, ora conservato presso il Museo Nazionale della Montagna di Torino, contiene molti bei nomi dell’alpinismo italiano ed europeo, oltre alla testimonianza del passaggio di illustri esponenti del mondo della cultura, come Giosuè Carducci, dello spettacolo, come Eleonora Duse, e della scienza, come Guglielmo Marconi.

1896: Adolfo Kind sale in sci da Balme al Pian della Mussa
“Andando da Balme, nelle valli di Lanzo al Piano della Mussa, con due miei amici, l’ingegner Kind e suo figlio, ebbi a provare per la prima volta l’utilità somma di questi pattini. La neve era ricoperta di una crosta gelata, incapace assolutamente di reggere un uomo a piedi; eppure noi, quantunque poco pratici nel servirci degli ski, potemmo percorre il tragitto in meno di un’ora, lasciando appena traccia del nostro passaggio. Così scriveva sulle pagine dell’”Esercito Italiano” del 12 marzo 1897 il tenente d’Artiglieria da Montagna Luciano Roiti.
Adolfo Kind fu il vero pioniere dello sci in Italia. Era un ingegnere svizzero residente a Torino che, appassionato alpinista, si fece mandare dal suo paese alcune paia di “ski”, li provò sulle pendici della collina torinese e quindi affrontò le prime uscite in montagna, nelle vicine valli di Lanzo, di Susa e del Sangone.

Sci club, trofei e trampolini
Gli atleti dello Sci Club Balme in un primo momento indossarono il costume locale, la màii dou bort, e successivamente le maglie dimesse dei calciatori della Juventus, procurate dal medico sportivo di questa squadra, che aveva una villa a Balme.
In assenza di impianti di risalita, più che la discesa venivano praticati il fondo e lo sci-alpinismo, mentre nel periodo tra le due guerre mondiali vennero disputati numerosi e prestigiosi trofei di alta quota detti “di gran fondo”.

Grande diffusione avevano in quegli anni alcuni sport della neve oggi ridotti alla sola dimensione competitiva come il bob, lo slittino e il salto. A Balme la pista da bob era la stessa via principale del capoluogo, che veniva sgomberata dalla neve soltanto per metà, allo scopo di permettere il traffico delle slitte, mentre nei pressi del paese sorgevano due trampolini, di cui è ancora possibile vedere i resti.

Pietro Castagneri detto L’Aria, il fondista “veloce come il vento”
Il più forte dei fondisti di Balme fu Pietro Castagneri detto l’Aria (1906-1967), che significa “il Vento”, perché era veloce come il vento. L’Aria fu più volte campione nazionale, ma a Balme, come spesso accade, viene ricordato soprattutto per un exploit di colore locale.

Siamo al principio degli anni Trenta. Un atleta di Bardonecchia viene accusato da un rivale di Valtournanche di aver tagliato un tratto di percorso durante una gara. Erano cose che -a quanto pare- succedevano con una certa frequenza. I due si sfidano e scelgono come territorio neutro le montagne di Balme. Viene organizzata una grande gara e c’è molta attesa per chi dei due sarà il vincitore. Ma il primo ad arrivare è invece l’Aria, talmente veloce da comparire quando la giuria non ha ancora fatto a tempo a montare il traguardo.